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di Giorgio Bongiovanni

“Di Matteo è veramente vintage, cioè fuori moda, fuori tempo massimo. Credo che il suo tempo lo abbia fatto ampiamente. Ogni volta che ha aperto bocca su qualsiasi riforma ha sempre avuto un ipse dixit, un'autoreferenzialità impressionante quanto patologica”. E' violento l'attacco del vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, intervenuto qualche giorno fa a Tagadà, su La7, contro il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo, che, nello stesso programma, la scorsa settimana, aveva espresso dure e giuste critiche contro le recenti riforme della giustizia marchiate Marta Cartabia e Carlo Nordio.
Sisto, avvocato, in politica con Forza Italia dal 2008 e già sottosegretario alla giustizia nel governo Draghi, si sarà sentito chiamato in causa nel momento in cui il magistrato aveva denunciato come oggi "si sta andando sempre più verso una giustizia a due velocità" e "verso uno scudo di protezione verso i potenti". Un percorso legislativo che comporterà la creazione di un sistema che limiterà "l'incisività delle indagini dei pubblici ministeri, dei magistrati in generale, nei confronti dei potenti e che limita il diritto all'informazione su fatti che sono oggettivamente rilevanti dei cittadini". E non erano anche mancati riferimenti al progetto di riforma sulla separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudice, bocciato più volte anche nei  referendum, che continuamente viene riproposto. Un progetto che era inserito anche nel piano di rinascita democratica della P2 guidata da Licio Gelli.
Addirittura Sisto, rispondendo alla conduttrice Tiziana Panella che aveva chiesto se il nostro sia un Paese meraviglioso con poca corruzione, visto che “il numero dei detenuti per reati di colletti bianchi in Italia è enormemente più basso che in Germania, in Francia e negli Stati Uniti”, ha affermato semplicemente che “i reati comuni sono molto più comuni, cioè i reati della quotidianità sono in numero nettamente superiore”.
A sentirlo parlare gli allarmi di una moltitudine di addetti ai lavori (Costituzionalisti e magistrati) che hanno criticato duramente in questi mesi gli interventi che questo governo sta portando avanti con le proprie riforme, non hanno ragione di esistere. Però il vice-ministro ha un solo nome in testa: quello di Nino Di Matteo. 
Forse non un caso se si considera che il magistrato in questi mesi ha scelto di non tacere, scrivendo insieme al giornalista Saverio Lodato, un libro coraggioso come “Il colpo di spugna. Trattativa Stato-mafia: il processo che non si doveva fare” (edito da Fuoriscena-Libri Rcs) con l'intento di cercare di riportare un po' di verità e di chiarezza su tutto quello che è stato detto all'indomani delle sentenze della Cassazione sul processo che ha visto in primo grado le condanne e successivamente le assoluzioni di tutti gli uomini delle istituzioni.
Il vice-ministro Sisto dovrebbe restare in silenzio. Dimentica che il partito di cui fa parte, Forza Italia, è stato fondato da un uomo della mafia, Marcello Dell'Utri (condannato in via definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa) e da uno che la mafia la pagava.
Parliamo di Silvio Berlusconi (come è scritto nelle sentenze, almeno fino al 1992), oggi deceduto.
Proprio l'ex Cavaliere, in occasione di un congresso che anticipava le elezioni europee del 1999, abbracciando Dell'Utri aveva ammesso che senza Dell'Utri, Forza Italia non sarebbe esistita.
Che Forza Italia è il partito scelto dalla mafia immediatamente dopo le stragi è stato raccontato da decine e decine di collaboratori di giustizia. E persino i capimafia non hanno fatto mistero di quella che fu la loro “scelta”. Si ricordino le parole di Giuseppe Piromalli, capostipite della cosca di Gioia Tauro, padre dell’omonimo boss (soprannominato "Facciazza") che verrà arrestato anni dopo, nel processo che lo vedeva accusato anche di estorsione ai danni dei gestori dei ripetitori Fininvest nell'udienza del 24 febbraio 1994 (era in corso la campagna elettorale) aveva gridato dalla cella: “Voteremo Berlusconi, voteremo Berlusconi”.
Un'indicazione di voto a cui Berlusconi replicherà senza prendere le distanze, così come mai nessun politico di Forza Italia ha preso mai le distanze dai condannati per mafia iscritti al partito.
E l'elenco non vede solo Marcello Dell'Utri, indagato (assieme a Silvio Berlusconi, fino al suo decesso) a Firenze nell'inchiesta sui mandanti esterni delle stragi del 1993), in questa schiera di pregiudicati.
Un altro politico di prima grandezza condannato definitivo a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa è Antonino D'Alì, ex senatore ed ex sottosegretario all'Interno dal 2001 al 2006. Per i giudici è stato vicino alla mafia trapanese e a Matteo Messina Denaro.
Altro politico colpito dal reato di contiguità con la criminalità organizzata è Nicola Cosentino. Napoletano di Casal di Principe è stato deputato dal 1996 al 2013 per Forza Italia e PDL e nel quarto governo Berlusconi è stato sottosegretario all’Economia e Finanze. In primo grado venne condannato a 9 anni per concorso esterno, divenuti poi 10 in Appello e infine confermati in Cassazione lo scorso aprile. Le sentenze lo ritengono il referente del clan dei Casalesi.
Non va poi dimenticato il ruolo avuto da Amedeo Matacena (deceduto durante la latitanza nel 2022), deputato di Forza Italia dal 1994 al 2002 e condannato in via definitiva nel 2014 a tre anni di reclusione per essere stato contiguo alle ‘ndrine reggine. Matacena, morto a Dubai nel 2022, era accusato di avere richiesto l’appoggio elettorale della ‘Ndrangheta alla famiglia dei Rosmini.
Di recente è stato poi condannato in primo grado nel processo Rinascita Scott ad undici anni l'ex senatore di Forza Italia Giancarlo Pittelli per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa e per due casi di rivelazione di segreto d'ufficio (assolto, invece, dall'accusa di abuso d'ufficio aggravato con formula perché il fatto non sussiste).
Proprio Pittelli, intercettato nel 2018, aveva svelato altri passaggi dei collegamenti tra Dell'Utri e la mafia. “Ragazzi, ragazzi, Dell’Utri… Io lo so… Perché Dell’Utri, la prima persona che contattò per la formazione di Forza Italia, fu Piromalli a Gioia Tauro. Non so se ci… Se ragioniamo - diceva parlando con i suoi interlocutori - Tu pensa che ci sono due mafiosi in Calabria, che sono i numeri uno in assoluto, uno è del vibonese e l’altro è di Gioia Tauro, uno si chiama Giuseppe Piromalli. L’altro si chiama Luigi Mancuso, che è più giovane e forse più potente… Io li difendo dal 1981, cioè sono trentasette anni che questi vivono qua dentro… pazzesco… L’altro giorno ci pensavo, dico trentasette anni…”. Singolare che quelle parole su Dell'Utri venivano precedute da una battuta, quanto mai eloquente, sulle motivazioni della sentenza di primo grado sulla Trattativa Stato-mafia: “Senti, sto leggendo questa storia che hanno riportato sul 'Fatto Quotidiano' della trattativa Stato Mafia… Berlusconi è fottuto. Berlusconi è fottuto…”.
In primo grado Dell'Utri era stato condannato così come gli ufficiali del Ros, Mori, De Donno e Subranni. Nei successivi gradi di giudizio la sentenza è stata ribaltata con l'arrivo delle assoluzioni, ma come abbiamo scritto più volte ciò non significa che la trattativa tra Stato e mafia non ci sia stata.
Insomma è provato che politici di Forza Italia hanno avuto a che fare con le organizzazioni criminali. Oggi le parole del vice-ministro “vintage” della Giustizia Sisto sono inquietanti, così come inquietante è la presenza in Parlamento di un partito fondato da un uomo della mafia.
Quindi, signor vice-ministro aderente a quel partito, stia zitto e si dimetta.
I giardinetti della sua città natale la aspettano per passare il resto del suo tempo con i suoi nipotini.
Lunga vita al “futuro ex vice-ministro” Sisto.


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