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di Giorgio Bongiovanni

Pochi giorni fa, all'età di 75 anni, è morta a Roma Barbara Balzerani. Esponente delle Brigate Rosse e dirigente della colonna romana partecipò all'agguato di via Fani nel 1978, in cui morì l’intera scorta di Aldo Moro.
Mai pentita, né dissociata, assieme a Mario Moretti fu protagonista del sequestro del leader della Dc e successivamente prese parte a numerosi omicidi, compreso quello del magistrato Girolamo Minervini nel 1980. Fu arrestata assieme a Gianni Pelosi nel 1985 dopo un lungo periodo di latitanza in cui era stata ribattezzata “la primula rossa delle Br”.
Qualche anno fa, con la pubblicazione del lavoro della "Commissione Fioroni" sul caso Moro, scrissi già il mio pensiero sulle attività che furono compiute in quell'azione dalle Brigate Rosse.
Venne dimostrato nel merito come i brigatisti non agirono da soli nel compiere il delitto.
Tutto sarebbe stato ideato, studiato ed eseguito da una commistione internazionale tra Brigate Rosse, parti deviate dello Stato, servizi segreti, in testa Cia e KGB, mafia siculo-americana, criminalità organizzata italiana e poteri occulti del Vaticano.
Pezzo per pezzo fu smontata la cosiddetta "verità dei brigatisti", quella del memoriale Morucci-Faranda, è stata smontata dalla Commissione.
Secondo i dati raccolti, infatti, è materialmente impossibile che Moro sia stato ucciso nel cofano della Renault, parcheggiata in via Caetani, così come non è vero che è morto sul colpo. Grazie agli esami del Ris sappiamo che contro di lui sono stati sparati undici colpi da due armi, 2 silenziati e 9 normali, che hanno sparato da una posizione frontale e che l'agonia è durata minimo un quarto d'ora.
Non solo.
Sullo sfondo emerge anche un'inquietante presenza in via Fani come quella del boss della 'Ndrangheta Antonio Nirta. Perché si trovava lì? Che ruolo ha giocato la criminalità organizzata in questa partita?
Domande che ancora non hanno trovato risposta anche se collaboratori di giustizia raccontano di coinvolgimenti sia prima che dopo il sequestro del politico Dc.
E' sempre più evidente che pezzi deviati delle Istituzioni lavoravano per impedire che Moro venisse salvato.
Servizi segreti americani e sovietici, Cia e KGB, finanche il Segretario di Stato americano, Henry Kissinger, organizzazioni criminali come Cosa Nostra e, appunto, ‘Ndrangheta, e ovviamente la loggia massonica P2, possono essere inserite in questo quadro drammatico e criminale.
Che ruolo hanno avuto le Br, protagoniste visibili di tutta l'operazione?
Lo spieghiamo ancora una volta riproponendo le stesse considerazioni di quell'editoriale.
C'erano brigatisti convinti che credevano nella “causa” e nelle azioni che venivano compiute. C'erano brigatisti connessi alla delinquenza comune ma anche altri che erano infiltrati dai Servizi segreti stranieri, dalla Cia, in un gioco più grande di loro.
Alberto Franceschini, membro delle Br, ha sostenuto che senza la copertura della CIA, del KGB, del Mossad, loro non avrebbero potuto né rapire né tenere nascosto Moro a Roma per 55 giorni. Sempre Franceschini, assieme a Renato Curcio (altro fondatore delle Br), sostiene che Mario Moretti sia una spia dei servizi segreti. Ed altri ancora sostengono che altri brigatisti di spicco erano infiltrati dei servizi.
E cosa si dovrebbe dire di Alessio Casimirri, che partì per il Nicaragua dalla Francia con un passaporto secondo molti fornito dai servizi segreti?
Sconcertante è poi la scoperta di un nuovo covo dei brigatisti in via Massimi in una palazzina di proprietà del Vaticano, amministrata dal figlio del segretario del cardinale Marcinkus dello Ior. Questa era collegata a via Licinio Calvo, vicinissimi a via Fani, e potrebbe essere stata la prima prigione di Moro.
Proprio sul ruolo del Vaticano e di don Antonello Mennini, il “postino” di alcune lettere di Moro sospettato di essere stato un “canale di ritorno”, restano pesanti interrogativi. Come le pressioni su Papa Paolo VI per evitare ogni apertura nella lettera agli “uomini delle Brigate rosse”.
A distanza di anni possono essere rilette le parole di Steve Pieczenik, il consigliere di Stato USA, chiamato al fianco di Francesco Cossiga per risolvere la condizione di crisi, in un’intervista pubblicata in Francia, nel 2006, dal giornalista Emmanuel Amara, nel libro “Nous avons tué Aldo Moro” (Abbiamo ucciso Aldo Moro).
"La decisione di far uccidere Moro non venne presa alla leggera. Ne discutemmo a lungo, perché a nessuno piace sacrificare delle vite. Ma Cossiga mantenne ferma la rotta e così arrivammo a una soluzione molto difficile, soprattutto per lui. Con la sua morte impedimmo a Berlinguer di arrivare al potere e di evitare così la destabilizzazione dell’Italia e dell’Europa". Non solo. Pochi anni prima, nel 2001, lo stesso Pieczenik, in una dichiarazione rilasciata a Italy Daily disse di aver agito per conto del governo di Washington e che il suo compito era “di stabilizzare l’Italia in modo che la Dc non cedesse. La paura degli americani era che un cedimento della Dc avrebbe portato consenso al Pci, già vicino a ottenere la maggioranza. In situazioni normali, nonostante le tante crisi di governo, l’Italia era sempre stata saldamente in mano alla Dc. Ma adesso, con Moro che dava segni di cedimento, la situazione era a rischio. Venne pertanto presa la decisione di non trattare. Politicamente non c’era altra scelta. Questo però significa che Moro sarebbe stato giustiziato. Il fatto è che lui non era indispensabile ai fini della stabilità dell’Italia”. Dichiarazioni, mai state smentite né da Cossiga né da Andreotti, che si inseriscono in un contesto politico definito.
Usando le parole dello stesso onorevole Grassi appare evidente, dunque, che sull'affare Moro venne messa in piedi una trattativa non per salvare il politico della Dc ma per accelerare la sua uccisione.
E' evidente il caso Moro non fosse solo una questione di ritorsione contro il “Compromesso storico” (tra l'altro parola mai usata dallo stesso Presidente Dc che invece auspicava per il Governo del Paese un'"alternanza" bipolare) ma qualcosa di più grande come la stabilità dell’area atlantica.
Dunque come fare per avere finalmente una nuova verità che sia anche processuale e non solo storica?
Provocatoriamente scrivemmo che dovevano essere riaperte in maniera definitiva le porte del carcere di quei brigatisti che, è evidente, non hanno raccontato la verità o che non hanno mai detto nulla agli organi inquirenti su quanto realmente avvenne con quell'azione nel 1978.
Personaggi come Valerio Morucci, ex capo colonna delle Brigate Rosse romane, 'dissociato', condannato a trent'anni di carcere al processo Moro, adesso libero; Adriana Faranda, anche lei condannata a trent'anni di carcere e in stato di libertà; Mario Moretti, condannato all'ergastolo per il sequestro e l'uccisione di Moro, in carcere in regime di lavoro esterno; Raffaele Fiore, condannato all'ergastolo e che dal 1997 gode della libertà condizionale, senza essersi mai pentito; Franco Bonisoli, condannato all’ergastolo nel processo romano Moro-Uno, dissociato dal 1983; Alessio Casimirri che è latitante in Nicaragua ed è stato titolare a Managua prima del ristorante Magica Roma e poi della “La cueva del Buzo”. Oggi sono tutti anziani, ma andrebbero riarrestati o quantomeno indagati.
Alla luce dei fatti fin qui esposti, con una vera e propria trattativa messa in atto per uccidere Moro e quindi destabilizzare lo Stato, si dovrebbe aprire un nuovo fascicolo per “Attentato a Corpo politico dello Stato”.
Per questo dovrebbero essere sospesi tutti quei benefici che lo Stato ha loro dato per “buona condotta”.
Loro, assassini in libertà, sanno la verità. E se vogliono ottenere benefici devono prima collaborare con la giustizia e raccontare quanto avvenuto in quella “trattativa” svelando i nomi di mandanti, promotori, favoreggiatori di quell'iniziativa che segnò la storia del nostro Paese più di quanto si potrebbe immaginare.

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